Gotha nella foresta Il nome Gotha, derivante da una nobile cittadina della Turingia, dove veniva tenuto e aggiornato l'elenco delle case regnanti e dell'aristocrazia europea, è passato da tempo a designare una scelta élite di oggetti e di personaggi. Nell'ambito del mondo animale, a occupare un primissimo posto nel particolare Gotha della classe Aves, sono senz'altro gli uccelli del paradiso (famiglia Paradiseidae dell'ordine Passeriformes). Poche categorie di uccelli, infatti, hanno sollecitato così ad alto grado la fantasia umana; e lo hanno fatto per la loro grande bellezza, per l'incredibile sfarzo dei rituali di corteggiamento, per l'aura misteriosa dei luoghi in cui vivono e la grande difficoltà di reperirne esemplari vivi o impagliati da esibire nei paesi europei. Le remote montagne della Nuova Guinea, dove vivono in fittissime foreste e dove da millenni vengono cacciati dagli indigeni per le magnifiche penne con cui essi sono soliti ornare i loro copricapo, hanno sempre costituito un ostacolo insormontabile per gli esploratori europei, che solo raramente osavano avventurarsi in un paese dove malattie, serpenti velenosi e non ultimo, la presenza di bellicosi cannibali, rappresentavano un deterrente che solo i più coraggiosi e determinati riuscivano a superare. Tra i pochi italiani che si inoltrarono in queste terre, vanno citati il fiorentino Odoardo Beccari e i liguri Giacomo Doria e i due cugini Enrico Alberto e Luigi Maria D'Albertis, i quali tra gli anni Settanta e Novanta dell'Ottocento compirono alcune spedizioni nella
Ecco quindi che si capisce l'emozione dei primi scopritori di questi volatili, che non esitarono ad attribuire i nomi più altisonanti delle casate europee del tempo: si va così dal Re di Sassonia (King of Saxony Bird of Paradise, Paradisea alberti), così nominato in onore del re Alberto I di SassoniaCoburgo, alla Principessa Stefania (Stephanie's Astrapia, Astrapia stephanie), dedicato alla principessa Stefania del Belgio, moglie del principe Rodolfo d'Austria, il cui nome è legato a sua volta allo splendido Blue Bird of Paradise Paradisea rudolphi, alla Parotia di Carola, che evoca la regina Carola di Vasa, moglie di Alberto I di Sassonia, per citarne solo alcuni. E tra tanto sangue blu di tutta Europa non poteva mancare un italiano, il marchese Francesco de' Raggi di Genova, grande appassionato di caccia e di ornitologia, il cui nome fu proposto all'inglese Sc1ater da Luigi Maria d'Albertis per la specie probabilmente più bella tra quelle della famiglia degli uccelli del paradiso. Luigi Maria d'Albertis fu compagno di avventure del già citato Odoardo Beccari in una delle prime spedizioni italiane in quella strana e affascinante isola, e in seguito, una volta trasferitosi a Sidney per motivi di salute, fu collaboratore del British Museum di Londra. A dire il vero, l’Uccello del Paradiso del marchese de' Raggi Paradisea raggiana rappresenta la quintessenza degli uccelli di questa famiglia, a tal punto da essere stato raffigurato migliaia di volte e da comparire, più o meno stilizzato, sulle banconote della repubblica di Papua Nuova Guinea e persino sugli aerei della compagnia di bandiera Air Niugini. Già, l’aspetto degli uccelli del Paradiso li fa sembrare quasi creature di un altro pianeta: basti pensare alle due lunghissime penne bianche e nere che ornano la testa del King of Saxony, lunghe anche quattro volte la lunghezza del corpo dell'animale, una bizzarra appendice che dà l’idea di un folle parrucchiere che abbia voluto abbellire l'animale per una festa carnevalesca; o le code lunghissime di velluto nero che fluttuano al vento durante il volo della Stephanie's Astrapia, solo rivaleggiate in lunghezza e sontuosità da quelle bianche della Ribbon-tailed Astrapia Astrapia mayeri. Lo spettacolo che offrono i voli di questi uccelli verso il tramonto, quando si spostano da un albero all'altro, incantevole da osservare mettendosi su un poggio che domina la volta della foresta, ha qualcosa di magico. Ma nulla è paragonabile alla sontuosa parata nuziale che i maschi di alcune specie mettono in atto per attirare le femmine: sono stato fortunato testimone di tre di esse e devo dire che raramente ho assistito a esibizioni così bizzarre, teatrali e fantasmagoriche nel mondo della natura. Nascosto in una specie di capanno costruito appositamente con frasche e felci grondanti umidità, in una sperduta foresta della valle del Tari, ho potuto assistere allo strano rituale dell'Uccello del Paradiso di Lawes Parotia lawesi; il maschio, completamente nero, occhio azzurro, un baverino di piume cangianti e sei lunghe piume filiformi terminanti in un leggiadro ciuffetto a mo' di pon-pon che gli ornano la testa, compie continue ispezioni al suo lek, lanciando nervosi gridi di richiamo e di avvertimento alle femmine. Queste, del tutto anonime quanto a divisa, marroni con una fine barratura sul petto, arrivano alla spicciolata, ma il maschio non si degna di iniziare lo spettacolo a meno che non se ne siano radunate tre o quattro contemporaneamente. Se l'audience è di suo gradimento, il maschio si pone su di un ramo basso o per terra, mentre le femmine, attente e silenziose, con la testa chinata verso il basso, si accingono a osservare il grande spettacolo: tra di esse, quella che verrà maggiormente sedotta dal fascino del ballerino, gli salterà accanto, facendogli intendere di gradirne la compagnia e soprattutto promovendolo al rango di padre ideale della sua covata. È difficile descrivere cosa avviene in quei 10-15 secondi di durata del display, dato che il tutto si realizza a una velocità tale che per un osservatore normale è praticamente impossibile discernere i singoli gesti di quella folle danza. Riducendo all'essenziale (ma potete guardare il meraviglioso filmato di David Attenborough che mostra la danza al rallentatore) l'uccello incomincia a saltare freneticamente e alternativamente sulle zampe, mentre tutte le piume sono estroflesse dal corpo fino a farlo diventare una palla grigio-blu, con il corpo ormai indistinguibile, la testa girata a destra e a sinistra a una velocità supersonica, e tutto vibrante con un'intensità pazzesca, come se il corpo dell'animale fosse stato investito da una colossale scarica elettrica (in campo umano, l'unico spettacolo che mi ha dato i brividi e che è in un certo senso paragonabile per l'estatico abbandono è quello dei Dervisci Danzanti a Konya, in Turchia).
Al confronto, le esibizioni delle altre specie di uccelli del Paradiso, seppur scenografiche, sembrano spettacolini per scolaretti: l'Uccello del Paradiso blu, Paradisea rudolphi (interessante il fatto che il colore blu brillante delle sue piume non sia impartito da un pigmento, ma sia il risultato della diffrazione della luce, come avviene per molte farfalle), si "limita" a porsi a testa in giù appeso a un ramo sottostante a quello su cui è posata la femmina, e ad allargare a ventaglio le splendide piume che gli ornano la parte posteriore del corpo, ulteriormente impreziosite da due lunghi fili neri terminanti in un fiocco. Se per gli uccelli del Paradiso finora descritti l'esibizione del maschio è quasi sempre solitaria, a beneficio di un numero imprecisato di femmine, per la Paradisea raggiana, il più classico di questi uccelli, la cosa si complica, perché il rito avviene in modo collettivo, con due o più maschi disposti sullo stesso ramo a gareggiare per offrire la performance più impressionante per le femmine che li osservano dall'alto. E lo spettacolo non si fa attendere: dopo una serie di rauche grida di richiamo, che molto ricordano gli avvertimenti delle nostre ghiandaie (i Paradiseidae sono abbastanza strettamente imparentati ai Corvidae), il maschio, dalla stupenda livrea policroma (dorso giallo, petto marrone, testa con mascherina verde cangiante, coda costituita da un lungo fascio di piume dorate, lunghe anche più del corpo stesso), incomincia con l'alzare perpendicolarmente le ali e a gonfiare il piumaggio, tendendo ad arco il grosso fascio di piume della coda.
Dopo questo spettacolare inizio, l'uccello, per rendere ancora più spettacolare l'esibizione, si posiziona sul ramo a testa in giù, tendendo in alto e allargando il più possibile l'enorme coda, che, trafitta dai raggi del sole che filtrano attraverso il fogliame e fatta vibrare in modo continuo, dà proprio l'impressione di un'esplosione di fuochi d'artificio. Uno spettacolo che le femmine, come sempre piuttosto incolori e modeste nel loro abito, trovano irresistibile, ma che evidentemente non è stato creato a beneficio degli umani, come già aveva intuito il grande Wallace. Ma questa è un' altra storia. Hannibal the Cannibal Poche abitudini vere o presunte degli indigeni dei paesi più remoti hanno attratto la curiosità e spesso alimentato leggende truculente quanto l'antropofagia. Il mangiare carne dei propri simili è infatti uno dei più profondi tabù della razza umana, sempre condannato fin dall'antica Grecia, dove il titano Tantalo fu punito da Zeus con il famoso supplizio per aver servito arrosto il figliolo Pelope durante un banchetto degli dei. Anche ai nostri giorni, la furbesca saga di Richard Harris, con protagonista il dottor Hannibal Lecter, deve il suo clamoroso successo alla macabra abitudine del geniale cannibale di mangiare i propri avversari e persecutori, sicuramente più che alla fantastica interpretazione di Anthony Hopkins e Jodie Foster nel film Il silenzio degli innocenti. I primi esploratori del Pacifico trovarono tracce di queste inquietanti abitudini un po' in tutte le isole in cui approdarono, dalle Marquesas alla Nuova Guinea, dalla Nuova Zelanda alle Hawaii, a volte con semplici sopravvivenze nei ricordi dei più anziani, in altri casi nel pieno della loro pratica. Alle Marquesas, Robert Louis Stevenson incontrò gli ultimi divoratori di carne umana, chiamata dagli indigeni, con macabra ironia, quella dei "porci lunghi". Ma probabilmente nessuna terra si è guadagnata la triste nomea di paese di cannibali come la Nuova Guinea: ampie testimonianze fino a tempi relativamente recenti hanno riportato i riti delle ultime tribù dedite a questa usanza, praticata sia per onorare i parenti deceduti, sia per impossessarsi delle virtù guerriere di qualche nemico morto durante le inevitabili e continue scaramucce intertribali. Riguardo al primo motivo è illuminante la testimonianza del grande ornitologo e antropologo Jared Diamond, i cui accompagnatori locali, peraltro descritti come bravissime persone, ogni tanto lo abbandonavano per ritornare al villaggio per onorare qualche parente morto, ovviamente cibandosene. E sicuramente questa singolare abitudine sarebbe passata inosservata se non fosse stato per la drammatica avventura del figlio del magnate americano Rockfeller, che naufrago sulle coste della grande isola, finì per costituire la cena di una festosa tribù locale. Ma siccome a tutti i grandi peccati deve corrispondere una grande punizione, un po' come fu spesso interpretata, almeno agli inizi, l'epidemia di Aids nel mondo occidentale, anche il cannibalismo doveva avere una sua terribile nemesi. Questa si rivelò in una strana e terribile malattia, il kuru, letteralmente "il riso", perché coloro che avevano contratto l'infezione mostravano un agghiacciante rictus sui loro volti che li faceva apparire come sorridenti anche in punto di morte. Fu il medico Vincent Zigas che per primo, nel 1955, decise di studiare l'anomalo incremento di patologie neurologiche che colpivano alcune tribù di indigeni della Nuova Guinea. In particolare si occupò della tribù dei Fore del Sud, una comunità di circa ottomila individui abitanti nel sottodistretto di Okapa, tra i cui membri, specialmente donne e bambini, questa malattia sembrava particolarmente diffusa. I sintomi iniziali della malattia, che porta inevitabilmente alla morte del malato, sono la perdita dell'equilibrio, movimenti oculari innaturali e tremori vari. Zigas, studiato il fenomeno, mise in allarme le autorità australiane che governavano la parte orientale della Nuova Guinea con un protettorato. Nel 1957 Zigas si recò nella zona maggiormente colpita, accompagnato dal microbiologo e pediatra statunitense Carleton Gajdusek, allo scopo di stilare una statistica del fenomeno kuru. Studiando meglio le abitudini alimentari degli indigeni, i due studiosi giunsero alla conclusione che la malattia era legata all'usanza cannibalistica di mangiare, durante alcuni riti sacri, il cervello dei cadaveri. Zigas prelevò alcuni campioni di sangue e di cervello dalle vittime morte di kuru e li spedì negli Stati Uniti perché fossero analizzati, ma tutti gli esami per evidenziare qualche forma di virus furono negativi. Dopo il primo anno di studio i due pubblicarono i loro risultati: il 60% delle donne adulte e un terzo dei bambini a cui veniva dato da mangiare il cervello dei defunti contraeva la malattia. Gli uomini adulti, che in quanto cacciatori mangiavano solo i muscoli dei defunti, venivano risparmiati dal kuru. Dopo questo studio, dal 1957 venne proibito il rito del cannibalismo dalle autorità australiane: negli anni successivi l'incidenza del kuru, che dal 1957 al 1968 aveva mietuto 1100 vittime, crollò a livelli esponenziali. In tempi recenti (2001) i rari casi riscontrati sono da imputare a contagi risalenti a prima del divieto. Ma che cos' è esattamente il kuru? Fu lo stesso Gajdusek a stabilire una similitudine con la sindrome di Creutzfeld-Jakob (vCJD), la variante umana del morbo della "mucca pazza" (BSE, che sta per Bovine Spongiform Encephalopathy). Tra le ipotesi iniziali del ricercatore vi fu quella che si trattasse di un virus lento, cioè con un lungo periodo di latenza. A distanza di anni si conoscono molte più cose su queste malattie, tra cui il quadro neuropatologico, che si presenta come un grave e diffuso danno cerebrale, ben esemplificato dalla denominazione di "degenerazione spongiforme", e la via di contagio, presumibilmente alimentare, per assunzione di carne infetta. L'esatta natura del kuru fu scoperta dopo che le cause più ovvie e probabili, e cioè disordini genetici o virus a effetto lento, dovettero essere scartate in favore della malattia prionica. Fu Stanley Prusiner che per primo identificò e definì le malattie prioniche nel 1992. Secondo la sua classificazione un prione è una particella infettiva composta da una proteina, capace di causare disordini neurovegetativi. Il termine prione fu coniato nel 1982 dallo stesso Prusiner, per denominare una particella infettiva con caratteristiche inedite, in particolare la resistenza ai raggi UV, la mancanza di acidi nucleici e la composizione esclusivamente proteica (scomponendone il nome, abbiamo: "pr" per proteina, "i" per infettiva e "one" per particella). Da notarsi, per ironia della sorte, che lo stesso termine nella lingua italiana indica anche un bellissimo uccello dell'Antartide. Si tratta, comunque, di una particella infettiva di natura proteica (glicoproteina), priva di acido nucleico e resistente quindi all'azione degli enzimi che distruggono l'RNA e il DNA. La sua struttura ultramiscroscopica è diversa da quella dei virus e pertanto il prione non può essere considerato né un virus né un viroide (cioè una struttura dotata di acido nucleico), né tantomeno un fungo, un batterio o un parassita. Il prione esiste in due forme. Quella innocua (PrPc) può cambiare la sua forma e diventare patogena (PrPSc). La conversione da PrPc a PrPSc procede poi con una reazione a catena. Quando viene raggiunta una concentrazione sufficiente di proteine PrPSc, queste si aggregano a formare un lungo filamento che gradualmente danneggia il tessuto neuronale. Ma a parte la triste e comunque istruttiva storia del kuru, ci si può chiedere se siamo ormai al sicuro da queste terribili malattie prioniche. Dopo alcuni anni vissuti nel terrore, la BSE sembra essere stata debellata, ma attenzione a non sottovalutarla: la prestigiosa rivista Lancet ha pubblicato recentemente i risultati di uno studio in cui si mostra che dal 1996 al 2004 sono stati identificati undici pazienti colpiti dal kuru tutti nati prima che terminassero i riti cannibalici. In tutto il periodo preso in esame, dal 1957 al 2004, il numero di casi ha così superato i 2700, con un limite di incubazione minimo di cinque anni e una media di dodici anni. Ma, e qui sta l'aspetto più rilevante dello studio di Lancet, i ricercatori hanno verificato anche tempi di incubazione fino a 50 anni, concludendo che le stime e i modelli esistenti sull' epidemia di vCJD possano essere sottostimate. Lo studio, commenta l'editoriale di supporto, offre una prospettiva unica sulla storia della malattia prionica umana. Nell'infezione umana per di più possono entrare in gioco ulteriori fattori a condizionare la media del periodo di incubazione: ecco perché, conclude l'editoriale, ogni convinzione che la malattia abbia raggiunto il suo picco e che abbia passato ormai la fase peggiore deve essere trattata con scetticismo. Tornando alla Nuova Guinea, un giorno, dopo un'escursione nella torrida foresta vicino a Medang, nella costa nord di Papua, mi fermai in un villaggio dove due ragazze del luogo gentilmente mi offrirono da bere e un graditissimo sedile all'ombra; parlando un po' della loro vita, mi venne naturale chiedere loro che cosa sapevano dei riti cannibalici e se per caso pensavano che esistessero ancora nella loro isola. La risposta fu dapprima un divertito e quasi scandalizzato "nooooo", ma poi una delle due ragazze, con fare naturale e disinvolto disse: "Però mia madre ha mangiato sua madre". |
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